“L’angelo si trascinava qua e là come un moribondo senza padrone. Lo scacciavano a scopate da una camera e un momento dopo se lo ritrovavano in cucina. Sembrava trovarsi in così tanti luoghi nello stesso tempo che giunsero a pensare che si sdoppiava, che ripeteva se stesso per tutta la casa, e l’esasperata Elisenda gridava fuori di senno che era una disgrazia vivere in quell’inferno pieno di angeli. Poteva mangiare a malapena, i suoi occhi da antiquario si erano fatti così torbidi che camminando inciampava nei pali di sostegno, e ormai non gli restavano che le cannucce pelate delle ultime penne. Pelayo gli buttò addosso una coperta e gli fece la carità di lasciarlo dormire sotto la tettoia, e soltanto allora si accorsero che passava le notti con caldane e delirando in un barbugliamento di norvegese antico. Fu una di quelle poche volte che si spaventarono, perché pensavano che stava per morire, e nemmeno la vicina saggia aveva saputo dire che cosa si faceva degli angeli morti. Tuttavia, non solo sopravvisse al suo peggior inverno; ma parve perfino migliorare coi primi soli. Rimase immobile per molti giorni nel cantuccio più recondito del cortile, dove nessuno lo vedeva, e agli inizi di dicembre cominciarono a nascergli nelle ali delle penne grandi e dure, penne di uccellaccio vecchio, che sembravano piuttosto un nuovo danno della decrepitezza. Ma lui doveva conoscere la ragione di quei cambiamenti, e infatti si dava molto da fare perché nessuno lo notasse, e nessuno udisse le canzoni di naviganti che certe volte cantava sotto le stelle. Una mattina, Elisenda stava tagliando fette di cipolla per il pranzo, quando un vento che sembrava d’altomare penetrò nella cucina. Allora si affacciò alla finestra, e sorprese l’angelo nei primi tentativi del volo. Erano così goffi, che aprì con le unghie un solco d’aratro nell’orto e fu sul punto di demolire la tettoia con quelle alate indegne che scivolavano nella luce e non trovavano appiglio nell’aria. Ma riuscì a prendere quota. Elisenda emise un sospiro di requie, per lei e per lui, quando lo vide passare al di sopra delle ultime case, sostenendosi in qualche modo con un arrischiato starnazzare di avvoltoio senile. Continuò a vederlo fin quando terminò di tagliare la cipolla, e continuò a vederlo fin quando non era più possibile che potesse vederlo, perché allora non era ormai più un impiccio nella sua vita, ma un punto immaginario nell’orizzonte del mare.”
La magia delle sue parole. A Gabriel Garcia Marquez:
grazie!
3 comments
foto stupende, ricetta…. la conosco, colomba speciale!
e grazie per averci riportato alla memoria parole del gigante G.G.Marquez, sempre e per sempre meravigliose.
grazie!
Sandra
NON CI POSSO CREDERE! L'hai fatta anche tu? GRAZIE! Grazie mille, ti è venuta fantastica, nonostante la glassa prima della lievitazione! Bravissima. non conoscevo la Miss Baker e sono andata a vedere su san google: bellissima la tua impastatrice. Chissà quante meraviglie tirerai fuori. Grazie ancora davvero, mi fare troppo felice! Un bacio
Ciao Gaia, che bellissimo post… e questa colomba è incantevole, mi sembra quasi di sentirne il profumo… complimenti di vero cuore! Io non ho mai provato a farla, ho un po' di timore davanti ai lievitati "importanti"… spero di superarlo un giorno… intanto ammiro! 😀 Mi sono unita ai tuoi follower (purtroppo senza foto perché Gfc non me la fa caricare, non capisco, è da diversi giorni che ho questo problema), mi trovi come Valentina C. 🙂 Un abbraccio forte e felice weekend :**