Ho deciso di scrivere ancora del Nepal, un post dove non facesse semplicemente il contorno ad una ricetta ma che raccontasse i miei ricordi di un luogo che non esiste più, almeno come l’ho visto io, a causa del terribile terremoto del 2015 che ha fatto quasi 9.000 morti. Un tributo ad un paese che insieme alla sua gente si è impresso profondamente nel mio cuore e da questo ho tratto il titolo del post. Le Lung-ta infatti sono le piccole bandierine colorate attaccate ai fili che si vedono intorno ai luoghi sacri al Buddismo o ai templi, esposte dove c’è maggior corrente perché il vento le faccia sventolare, permettendo così ai mantra di buon auspicio e compassione che vi sono scritti, di raggiungere ogni essere vivente. Questo post vuole essere una specie di Lung-Ta per il Nepal, l’augurio che questo paese, il quinto più povero del mondo già prima del terremoto, possa trovare la forza di risollevarsi e di reagire nonostante il fatto che, come sempre succede, il suo dramma sia stato presto dimenticato. La ricostruzione è lenta e difficoltosa, i beni di prima necessità continuano a scarseggiare e gran parte della popolazione è costretta ancora oggi a vivere in rifugi temporanei. Non possiamo fare molto ma perlomeno non dimentichiamoci completamente di loro. Il Nepal è un luogo stupendo ed invito chi ne avesse la possibilità a visitarlo. Farete del bene a voi stessi ed aiuterete la popolazione a riprendersi. Ne hanno veramente bisogno, tanto.
Agosto 1990. Con mio padre decidiamo di visitare il Nepal. Sette giorni insieme e poi lui tornerà a casa ed io proseguirò il viaggio da sola per altri 25 giorni. Estate calda sotto tutti i punti di vista infatti proprio mentre stiamo passeggiando per il popolarissimo quartiere di Kathmandu, Thamel, il 3 agosto, mio padre vede su di un giornale la foto di Saddam Hussein. “Cos’ha combinato ora quel cretino?” mi chiede, dato che l’articolo è in inglese. Il “cretino” ha appena invaso il Kuwait, atto che porterà alla guerra del golfo. L’ambasciata ci consiglia di rientrare in patria velocemente per l’alto rischio di chiusura degli spazi aerei ma decidiamo di restare comunque mentre tanti preferiscono ripartire subito. A causa di questo Kathmandu quindi si spopola e considerando che Il Nepal nel 90 non é ancora così visitato, ci offrirà scorci davvero meravigliosi e relativamente tourist free. La prima cosa che noto sono i bambini. Tantissimi, soli, i più grandicelli con in braccio i più piccoli. Faccine sporche ma sorridenti, abitini laceri, ricuciti con mille toppe, gli occhi grandi e saggi di chi ha già visto troppo. Mi circondano chiedendomi “bum bum” e giocano con dei fili saltandoci sopra a turno e nonostante tutto ridono, ridono tanto. La seconda cosa è lo stridente contrasto tra le zone popolate da nepalesi e quelle popolate da profughi tibetani che abitano principalmente nella valle di Kathmandu. Dove nelle prime c’è chiasso e confusione, nelle seconde regna il silenzio rotto soltanto dai tintinnii delle Ghanta, le campanelline rituali che stanno fuori dai templi e il cui suono è di buon auspicio e serve a scacciare gli spiriti maligni. La terza, lo smog. I palazzi coperti da uno spesso strato nero, il naso che alla sera ne pare interamente rivestito, la pelle sporca come di fuliggine, tanto che quando rimasta sola mi unirò ad un gruppetto di ragazzi e noleggeremo delle moto per raggiungere luoghi altrimenti off limits, saremo costretti a proteggerci naso e bocca con fazzoletti, a mò di rapinatori di banche del far west. Un paese dai mille contrasti il Nepal. Monaci buddisti che passeggiano lenti all’ombra degli stupa recitando l’Om e animali che vengono sgozzati in offerta alla dea Kali nel tempio di Dakshinkali tra le urla e il sangue che si riversa nel fiume tingendolo di rosso, panorami mozzafiato di maestose montagne innevate come si vedono solo nel “Signore degli anelli” e credenze altrettanto fiabesche come quella che della Kumari, la dea vivente di Katmandu. La Kumari, termine che significa “vergine”, viene scelta tra le bambine di 4/5 anni appartenenti alla casta degli orafi e degli argentieri. Il suo corpo deve rispondere a 32 requisiti particolari; tra le bizzarre caratteristiche, deve avere le ciglia come quelle di una mucca, una bella ombra, il corpo come un albero di banano e le guance come quelle di un leone. Per valutare il coraggio e di conseguenza scegliere una bambina fra le tante, le prescelte vengono rinchiuse durante la notte della festa di Dashain in una stanza buia, tra teste di capre e 108 bufali sacrificati in onore della dea Kali insieme ad uomini mascherati da demoni che urlano e fanno rumore per spaventarle. Quella che non piangerà o che comunque mostrerà più coraggio diventerà la Kumari. Essere Kumari porta ovviamente un grande onore alla famiglia ma la bambina va incontro ad un’infanzia di privazioni. Sarà rinchiusa nel palazzo reale insieme ad uno stuolo di domestici, riceverà le poche e permesse visite dei genitori e non riceverà istruzione in quanto essendo Dea si ritiene abbia in se tutta la conoscenza. Le poche volte che uscirà dalla sua prigione sarà su di una portantina dorata perché non può toccare il suolo con i piedi e sarà libera solo con la prima mestruazione perché a quel punto sarà diventata impura e dunque la dea non potrà più abitare nel suo corpo. Stessa cosa avverrà se perderà sangue accidentalmente. Verrà deposta e le sarà concessa una specie di dote che difficilmente le servirà per un marito perché si dice che sposare una ex kumari porti a morte sicura. Ho letto in seguito di domestici compiacenti che in anni più recenti, per qualche rupia, mostravano la kumari ai turisti, così come si mostrano le scimmiette in gabbia ai bambini negli zoo, ma nel 90 non era così perché le regole erano molto rigide e stabilivano che la Kumari potesse mostrarsi solo in rare occasioni; così quell’estate ho assistito a numerosi quanto inutili appostamenti nel cortile del palazzo reale per intravederla anche solo per un attimo. Ma io, in quella strana estate, Rashmila Shakya l’ho vista. Passeggiavo nel cortile del palazzo reale, da sola, scattando foto ai balconi in legno meravigliosamente intarsiati e d’improvviso nell’obbiettivo c’era lei. Il volto pesantemente truccato, il terzo occhio dipinto sulla fronte, un’acconciatura elaborata ma il volto melanconico era quello di una bambina Era in braccio a qualcuno, nonostante avesse già credo 10 o 11 anni. Mi ha guardato seria, ha alzato appena la mano ed è sparita. Quando penso al Nepal rivedo il suo viso triste ed anche se forse la sua storia è quella che ha avuto un epilogo migliore rispetto a quella delle altre Kumari (dal Nepali Times) ogni tanto il suo ricordo torna a turbarmi.
Per il periodo trascorso con mio padre abbiamo alloggiato in un hotel di lusso, una specie di reggia che un tempo era stata la residenza del re e che mi ha reso molto difficile “entrare” nell’atmosfera nepalese. Dal diario le mie prime impressioni. -“Mi sveglio alle 16 a causa del jet lag. Fa freddo perché l’aria condizionata non può essere regolata. O spenta o al massimo. Mio padre dormirà sicuramente e quindi decido di uscire. In strada mi riassale quello strano odore dolciastro, come di frutta fermentata e di fogna insieme che avevo sentito appena scesa dall’aereo e del quale avevo letto in tanti libri, solo che qua è più forte, quasi insopportabile. Incomincia a piovere così sono costretta a rifugiarmi in una specie di supermercato. È ben fornito, vendono anche la crema Nivea e le Superga. Il Nepal sta già perdendo un pò del suo fascino ma quando esco il vero Nepal è lì che mi aspetta. Il supermercato è per i turisti. I nepalesi non potrebbero mai permettersi quello che ha in vendita. I loro “negozi” sono ben diversi, sgabuzzini bui con il soffitto basso dove i commessi sono seduti per terra, sullo sporco, ad aspettare i clienti. Non ci sono scaffali, vetrine o insegne e quello che si vende è scritto con la vernice nera sulla parete. La gente mi guarda. Sono l’unica turista nei dintorni e qualcuno mi sorride, le donne soprattutto, che sembrano sconcertate dal colore dei miei capelli e molto probabilmente dalla mia impudicizia (ho dei bermuda anche se piuttosto lunghi). Loro indossano sari colorati, soprattutto rossi, rosa ed arancio ed hanno occhi liquidi e profondi e stupendi capelli nero bluastri, come l’ala di un corvo. Dappertutto ci sono mucche e cani sdraiati tranquillamente in mezzo alla strada ma nessuno pare stupirsene. La gente si limita a scavalcare i cani e ad aggirare le mucche, per l’uccisione delle quali la legge nepalese prevede 10 anni di carcere. Gatti non ce ne sono perché, come ho letto prima di partire, sono animali che portano sfortuna. I cani seguono i banchetti di nozze, i gatti i funerali, recita una filastrocca nepalese, così ne uccidono quanti possono. Da un lato della strada c’è una mucca con una grande ferita su di un fianco. Mi guarda con occhi colmi di dolore e io chiudo velocemente i miei e continuo a camminare. Poco più avanti c’è una cagna che ha messo il suo cucciolo in un cantuccio e sembra fargli da guardia. Il cucciolo è magrissimo e si lamenta forte. Forse avrà fame ma io non ho niente con me, neppure soldi, così mi allontano piangendo e sentendomi completamente inutile. Le persone che mi passano accanto guardano le mie lacrime incuriosite. Vagli a spiegare che piango per una mucca ed un cane che molto probabilmente moriranno, quando loro non hanno cibo da dare ai figli. Mi è venuta una tristezza incredibile. Questo è il mio primo viaggio in un paese del terzo mondo ed è straziante tanta sofferenza e povertà. La tv rende tutto molto più “addomesticato” ma vederlo con i propri occhi è terribile. Continuo a camminare inciampando e passo davanti ad uno stanzino ancora più piccolo e buio dei precedenti. Dentro c’è un omino magro, seduto per terra e ai suoi piedi, sul pavimento di terra battuta, c’è un grosso pezzo di carne sanguinolenta interamente ricoperta di mosche. È un macellaio ma quell’unico pezzo di carne è tutto quello che il suo misero negozio ha da offrire. La stanchezza, ora però mista a depressione, torna a farsi sentire quindi decido di tornare indietro. Si sta facendo buio e non conosco la zona. Questa volta percorro la strada sull’altro lato. Qua la maggior parte dei negozi vende articoli come saponi, stracci, stecchi legati insieme che immagino siano le loro scope e strane ed antiquate figurine di uomini e donne riccamente abbigliati che probabilmente sono gli attori o i cantanti nepalesi più amati. Proseguo scansando le mucche ed infine raggiungo il mio albergo. Mi faccio una doccia e scendo al ristorante perché domani dobbiamo svegliarci presto ed ho bisogno di dormire, ed è con una sensazione di grande irrealtà che mi siedo nella grande sala dorata e guardo i camerieri servirmi brioches salate e burro..”-
Nonostante il suo ostinato tentativo di farmi cambiare idea, appena mio padre è partito mi sono immediatamente trasferita in una guest house per backpackers che costava un decimo, il Rara. Essendo sola, che è la condizione che preferisco per viaggiare, a volte mi sono unita ad altri viaggiatori ma soprattutto questo mi ha permesso di entrare in contatto con la gente del luogo e questo è ciò che ricordo con maggior piacere, più dei paesaggi e dei templi pur bellissimi. Dal diario:
15 agosto
-“Stamani alle 8 sono venute a pulirmi la stanza due ragazze nuove che sono sorelle e nonostante parlassero poche parole di inglese, dopo 10 minuti eravamo tutte e tre sedute sul letto a fumare e a ridere come delle matte. I loro nomi sono Tina e Sorsutì. Sorsutì è la più maggiore, ha 25 anni ed è vedova, quindi non avrà mai più un marito perché in Nepal le vedove portano sfortuna. Questo vuole anche dire che il sostentamento della famiglia spetta esclusivamente a lei ed è evidente dall’aspetto che le due non se la cavino affatto bene. Ero così triste per loro che ho regalato loro tonno, marmellata, biscotti, un pacchetto di sigarette, un fermacapelli di brillantini e una bottiglietta di cognac che mio padre aveva preso in aereo. Quello che non mangiano o bevono potranno comunque scambiarlo con beni di altro genere. Erano così felici che per ringraziamento mi hanno acconciato i capelli nepali style.
22 agosto
Stamattina Tina e Sorsutì mi hanno portato in dono 12 braccialetti di metallo che una volta messi non sono più riuscita a togliere e un sacchetto con 4 tika a goccia (sono le decorazioni che si portano in mezzo alla fronte); hanno anche voluto farmi un’altra pettinatura nepalese, questa volta con 2 trecce. Gli ho insegnato alcune parole in inglese e in italiano e loro invece alcune parole nepalesi che mi saranno molto utili come “Maddat garnu malaai jadoo maakuraa” che vuol dire “Aiuto, ho paura dei ragni”.
A metà mattina Tina ha tirato fuori un coltellone ed un frutto che non conoscevo, lo ha lavato, sbucciato e tagliato a spicchi. Era buonissimo, una specie di pera non granulosa e leggermente acidula. Mi hanno accomodato la radio (non c’ero mai riuscita da quando mi sono trasferita qua) e poi hanno ballato per me. Infine, tra molte esitazioni, mi hanno invitata ad andare a dormire da loro, domani, quando finiscono di lavorare e io ho risposto che sarà per me un grande onore.
23 agosto Teej Brata
Oggi inizia il Teej Brata, una festa rigorosamente femminile. Le donne sposate indossano i loro sari più belli, quelli rossi e oro del matrimonio e pregano Shiva e la moglie Parvati per la salute del consorte e per una felice vita coniugale. La festa dura tre giorni, si fanno bagni rituali nel fiume sacro Bagmati, a Pashupatinath e si banchetta il primo giorno e si digiuna gli altri due. Fa caldissimo, ho avuto giramenti di testa tutto il giorno ma alle 15 sono venute Tina e Sorsutì a pettinarmi e a truccarmi e non potevo deluderle. Alle 17 siamo uscite separatamente perché è severamente proibito per i dipendenti familiarizzare con gli ospiti della Guest House. Abbiamo preso un tuktuk che hanno voluto ostinatamente pagare e ancor prima di scendere, Sorsutì ha cominciato a scusarsi per la sua casa: “No good. No nice. Sorry” continuava a dirmi ma ho cercato di calmarla dicendole che non mi importava nulla della sua casa ma solo del fatto che erano state gentilissime ad invitarmi. Abitano sulla strada per Pashupatinath e prima di andare a casa mi hanno portato a visitare il fratello. La famiglia era tutta riunita ad aspettarmi perché è un grande onore ospitare uno straniero. C’erano il fratello, la cognata ed il nipotino. La casa era molto molto povera ma pulita, con teli di plastica al posto delle finestre. Mi hanno offerto una specie di aranciata ed abbiamo riso molto perché non parlavano neppure una parola di inglese e quindi non riuscivamo assolutamente a capirci. Mentre più tardi, a piedi, ci dirigevamo alla casa di Sorsutì che era lì vicina, mi hanno tirato tre sassi, uno dei quali mi ha colpito il ginocchio sinistro facendolo sanguinare. Kabhindra, il capo della mia guest house, la prima volta che mi è successo perchè mi è già successo altre volte, mi ha spiegato che io sono, per gli induisti, una Intoccabile; allo stesso tempo però, il mio tipo (capelli biondi e pelle chiara) rappresenta una forte attrattiva per gli uomini che vorrebbero toccarmi ma non possono, altrimenti sarebbero costretti a bere pipì di mucca per purificarsi, quindi si “sfogano” con i sassi. Che fortuna.. La loro casa è, se possibile, ancora più povera. I bambini di Sorsutì, un maschio ed una femmina, sono molto carini e mi guardano con gli occhi spalancati. Nella casa c’è un solo letto, in realtà nient’altro che un rialzo di legno con sopra delle stoffe, dove dormono Sorsutì e la figlia mentre Moes, il figlio, dorme per terra. Tina invece vive col fratello. Sopra alla stanza c’è la cucina, un bugigattolo buio con un calderone e un grande buco nel tetto di legno per far uscire il fumo. I bambini hanno ballato e cantato per me e poi Sorsutì si è messa a cucinare un piatto di patate speziate, quindi ci siamo seduti per terra, nella camera, a mangiare. Oltre al pensiero del cibo avevo quello dell’acqua. Era contenuta in un secchio ma non potevo certo offenderle rifiutandomi di bere. Sul letto c’era una zanzariera mentre le finestre erano semplici buchi nella parete. Io mi sono affacciata ed eccomi un’altra sassata, questa volta sulla fronte. Tina e Sorsutì si sono scusate ed affacciandosi dal buco hanno urlato qualcosa ma io comunque non mi ci sono più avvicinata. La serata è proseguita tra poche chiacchiere e tante risate. Quando è calato il buio Sorsutì ha acceso le candele e notando solo allora che non c’era l’elettricità, ho anche notato che le stanze erano solo due e che il bagno mancava. Ovviamente al pensiero è seguita istantaneamente l’esigenza di usarlo, quel bagno che non c’era e dopo essere riuscita a spiegarlo a Sorsutì e dopo almeno 5 minuti di risate sue e di Tina, mi hanno fatto scendere in strada, mi hanno portata sul retro ed hanno usato due sari per improvvisare una specie di tenda che potesse garantirmi un minimo di privacy. Salutata Tina che è tornata dal fratello, siamo rientrate in casa ma quando mi sono accorta che mi stavano preparando il rialzo di legno mi sono rifiutata e mi sono sdraiata sul giaciglio di Moes. Per terra era duro ma io l’indomani avrei potuto dormire mentre per Sorsutì sarebbe stata un’altra giornata di lavoro quindi ne aveva più diritto di me. Prima di addormentarmi ho girato la testa verso la “finestra” e l’ultima cosa che ho visto è stata la luna, piena e straordinariamente luminosa nel buio totale.”-
Io, Tina ed i bambini di Sorsutì
Un ultimo stralcio dal diario, per ricordare attraverso di lei tutti i bambini del Nepal:
7 agosto
-“Oggi siamo andati a vedere un templietto buddista in cima ad una collina. Pioveva a dirotto e dentro le mura ma comunque all’aperto, c’erano una giovane donna, un gobbo ed un vecchietto. La donna aveva un fagotto tra le braccia e solo dopo un pò che la guardavo ho visto spuntare un visetto tra gli stracci. Era un bambino di poche settimane, bagnato fradicio nonostante la donna cercasse di ripararlo. Appena gli altri due si sono allontanati, mio padre le ha dato dei soldi. Subito dopo l’ingresso alle mura c’era una specie di canonica dove lei evidentemente non poteva entrare. Era un posto bellissimo, tutto decorato in blu e i monaci stavano cantando. L’atmosfera elra molto suggestiva e si respirava una tale pace che ho deciso di chiedere se potevo fermarmi. Il monaco responsabile mi ha detto che ci sono delle stanze comuni dove i viandanti possono restare, ma sono solo per uomini. Pareva scioccato dalla proposta ma mi ha comunque detto che apprezzava il fatto che, parole sue, “proprio nel suo monastero la mia anima avesse scelto di manifestare la necessità di chiudersi in se stessa come i petali del fiore e meditare”. Usciti dal monastero ci siamo accorti che il vecchino ci aveva seguiti così gli abbiamo regalato una sigaretta e lui con una bocchina tutta sdentata ci ha ringraziato con il namaste e se ne è andato tutto contento. Prima di tornare in albergo ci siamo fermati vicino ad un ponte di quelli sospesi tipo Indiana Jones e lì c’era una bambina stupenda che invece di chiedermi soldi, indicava l’elastico argentato che mi tratteneva i capelli. Io le ho fatto capire a gesti che non potevo perché era troppo caldo per portare i capelli sciolti ma lei non si è indispettita ed ha continuato a sorridermi. Le ho fatto delle foto e poi le ho chiesto come si chiamava. “Mana”, mi ha risposto, “Mana Nepal”. Il ragazzo che era con noi allora mi ha spiegato che il suo nome era Mana che in nepalese vuol dire cuore. Col cognome però si identifica la casta quindi Mana, per evitare l’umiliazione di rivelare la sua che evidentemente era la più bassa, ha preferito inventarsi un cognome ed ha scelto la prima cosa che le è venuta in mente, la sua nazione. La cosa mi ha fatto stare così male che mi sono slegata i capelli e le ho messo l’elastico in mano. Lei è rimasta a guardarmi con gli occhioni sgranati perché non poteva credere che glielo regalassi veramente e continuava a guardarmi come se temesse che cambiassi idea, allora io le ho raccolto i capelli con l’elastico argentato e lei finalmente si è permessa di sorridere. L’ho salutata ma lei ci ha seguiti e quando siamo saliti sul pulmino e ci siamo allontanati ho continuato a guardarla fissa dal vetro posteriore. La sua figurina è pian piano rimpicciolita ma nell’ultima immagine che sono riuscita a cogliere, lei era sempre li che ci guardava, immobile, con la manina alzata”-
Non oso chiedermi dove sia Mana ora, se stia bene o se invece sia una dei 9000 scomparsi nel terremoto. Non so nulla di Tina, Sorsutì, la sua famiglia, il fratello. Niente di Kabhindra. Posso solo sperare che siano sopravvissuti e posso ricordarli attraverso queste righe affinchè qualcun altro conosca le loro storie, i loro volti. Volti di chi, in una vita di privazioni, ha avuto la forza di sorridere sempre, nonostante tutto.
Che la mia Lung-Ta sventoli sempre forte per tutti loro ❤️
14 comments
Amica mia.. sono tante le cose che vorrei dire, leggendo questo bellissimo post che hai scritto. C’è contrasto, di anime, di culture, persino di pensieri.. ci sono domande, c’è un duro confronto con una realtà che non è mai abbastanza realtà finchè non la si vive sulla propria pelle… e aolo allora la si racconta davvero, quasi come se ‘ufficialmente’, il mondo non si prendesse la briga di aprire il cuore mai a sufficienza.. e facesse trasparire solo una parte di ciò che accade, in qualche angolo del pianeta, mentre bisogni e necessità cambiano a seconda del grado di adattabilità e sopravvivenza. Con queste parole ci si trova a pensare, a commuoversi, ad arrabbiarsi e a stupirsi di quanto c’è da conoscere e da comprendere.. tra un senso di giusto e sbagliato del tutto soggettivo, quando bambine così piccole hanno sulle spalle responsabilità così grandi e inspiegabili; quando persino la moralità è strana, di fronte a chi deve sopravvivere e muore di fame. Gesti di bene, gesti di semplicità, gesti di fratellanza e occhi che restano dentro per sempre. Grazie, con affetto, per questa condivisione splendida, bella quanto a tratti triste e malinconica. Il mio Mana è con il Nepal.. e il tuo Mana, amica mia, è immenso. Spero di leggere ancora di questo tuo viaggio, che riesce a rendere ricchi dentro. TVB
Sono commossa da quello che hai scritto Ely, prima di tutto perché hai saputo cogliere quello che io, maldestramente, ho provato a condividere e poi perché lo hai “tradotto” così bene con le tue parole, così in chiave con quello che ho provato in Nepal e che continuo a provare nel ricordo. Ti ringrazio perché le tue parole aggiungono valore e forza al mio tentativo di far sventolare la
Lung-Ta. TVB Ely ❤️
Veramente stupendo questo viaggio il Nepal ma sopra tutto quelle zone mi hanno sempre molto affascinata. Non so le altezze ma oltre un certo… non posso più andarci a causa di un infartino 15 anni fa. Grazie dello splendido racconto e del suo contenuto. Continuerò a leggere e ancora grazie.
Buona fine settimana.
Mi dispiace Edvige. Nel tuo caso non sarebbe davvero consigliato ma ti assicuro che merita davvero ?
Sono rimasta affascinata dal tuo racconto, non sono riuscita a smettere di leggerti e sono qui con le lacrime agli occhi ed il cuore gonfio di dolore.
Grazie x questa testimonianza, potresti davvero scriverne un libro!
Un abbraccio <3
Avevo paura di aver scritto troppo ed invece ci sarebbe stato ancora così tanto da raccontare per far conoscere la realtà nepalese, già drammatica nel 90 ed ora davvero tragica Consu.. Stringe davvero il cuore entrarci a contatto ma arricchisce infinitamente ❤️
Aspettavo il seguito del racconto del tuo viaggio in Nepal e aspettavo i tuoi scatti.
Rimango così, senza parole mentre scorro avanti e indietro col mouse leggendo e rileggendo e nel cuore un’emozione profonda!!
Grazie Silvia! Ci hai fatto un regalo bellissimo! ♥
Grazie a te tesori anche per aver avuto la pazienza di leggerlo ❤️
è un racconto splendido, sei riuscita a descrivere tutto in modo estremamente vivido, a portarmi un po’ con te nel tuo viaggio. è una fortuna che esistano persone come te, che viaggiano per il mondo e portano testimonianze, voci, immagini grazie alla loro esperienza.
ti abbraccio e ti ringrazio di aver pubblicato tutto questo.
Purtroppo è sempre così: sul momento della tragedia tutti si commuovono , poi passa il tempo ed ognuno torna alla propria vita ma chi l’ha vissuta, la tragedia, purtroppo non ha una vita alla quale tornare. Questo appunto volevo: riportare anche se per un poco l’attenzione su chi ancora soffre. Grazie Tizi ❤️
Sono due giorni che ho il pc in mano alle figlie e dal cellulare non riuscivo a dirti quanto bello, intenso e commovente sia stato il tuo racconto… che belle foto, piene, ricche della povertà dei nepalesi. Triste, ma incantevole. Brava, brava, brava!
PS C’è una maniera elegante di dirti che da ragazza eri una sventola?
Un bascione gioia bella
E triste ma incantevole è stato il mio viaggio Patty. Un modo perfetto per descriverlo.
p.s. Fossi stata una sventola ora non sarei qui ??
Un abbraccio stritolante ❤️?
Che dire, è risaputo che con le parole non ci so fare. Tirare fuori le parole per ciò che ho provato leggendo il tuo post mi resta ancora più difficile di sempre ma voglio ringraziarti per averlo pubblicato. ♥
Quello che hai scritto tu lascia me senza parole Silvia bella. Grazie ❤️